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Dicembre 19, 2019

Videosorveglianza: il consenso dei singoli lavoratori non basta

Videosorveglianza

Una nuova pronuncia della Corte di Cassazione conferma l’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale l’accordo sindacale o il provvedimento autorizzativo dell’autorità amministrativa non possono essere sostituiti dal consenso, anche scritto, dei lavoratori.

Con sentenza n. 50919/2019 (resa in data 15/07 e depositata lo scorso 17/12), la Terza Sezione Penale ha deciso in merito al ricorso presentato avverso Tribunale di Milano, n. 362 del 14/01/2019, inserendosi nel solco già tracciato dalle sentenze gemelle n. 38882/2018 e n. 38884/2018 (delle quali avevamo parlato qui).

La Corte muove ricostruendo innanzitutto il quadro normativo e, dunque, dall’art. 4 della Legge 300 del 1970 (Statuto dei Lavoratori), secondo il quale gli impianti audiovisivi ed altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza, previa autorizzazione delle sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro.

Sotto il profilo sanzionatorio, rileva poi l’art. 38 della detta Legge (Disposizioni penali), come indicato all’art. 171 del D.Lgs. 196/2003 e successive modifiche:“La violazione delle disposizioni di cui agli articoli 4, comma 1, e 8 della legge 20 maggio 1970, n. 300, è punita con le sanzioni di cui all’articolo 38 della medesima legge”.

Alcun rilievo possono avere, dunque, per la Corte le seguenti circostanze dedotte dal ricorrente:

  • l’impianto di registrazione era stato installato onde garantire la sicurezza degli stessi dipendenti, posto che la finalità di garantire la sicurezza sul lavoro è un dei fattori che, in linea astratta, giustificano l’installazione, salva la realizzazione delle successive forme di tutela per i lavoratori;

  • il datore di lavoro non aveva diretto accesso alle immagini registrate, essendo l’impianto totalmente gestito da un fornitore terzo, poiché il fatto che le immagini videoregistrate siano nella disponibilità del datore di lavoro o di un fornitore terzo, da quello, tra l’altro, incaricato, è circostanza del tutto irrilevante ai fini dell’integrazione del reato;

  • era pervenuto al competente Ispettorato del Lavoro, il giorno successivo a quello in cui fu constatata la presenza dell’impianto di videosorveglianza, un documento sottoscritto da tutti i dipendenti con la quale essi dichiaravano di sollevare il datore dagli obblighi previsti ex art. 4 L. 300/1970.

Il ricorrente ha, in particolare, ritenuto che tale dichiarazione valesse, ai sensi dell’art. 50 c.p., quale causa di giustificazione della condotta, avendolo i soggetti che potevano disporre del diritto leso autorizzato a porre in essere la condotta contestatagli.

Le motivazioni

Innanzitutto, la Corte evidenzia come, onde attribuire alla indicata manifestazione di volontà efficacia scriminante, il consenso dell’avente diritto deve non solo perdurare sino al termine della consumazione dell’illecito, ma deve anche essere stato espresso in un momento anteriore alla sua consumazione, non potendo valere una dichiarazione postuma ad escludere la rilevanza penale di un fatto già perfezionatosi come illecito penale in tutti i suoi elementi.

Sostenere la tesi opposta equivarrebbe, sostiene la Corte, ad attribuire al soggetto disponente la facoltà non solo di sacrificare o meno una posizione soggettiva, ma anche di condizionare la rilevanza penale di una fattispecie, visione inconciliabile con una visione di carattere oggettivo del diritto penale e con l’interesse generale alla repressione dei reati.

Ritiene, inoltre, la Corte che in ogni caso la dichiarazione liberatoria non avrebbe potuto costituire scriminante, neppure se fosse stata sottoscritta in un momento precedente alla consumazione dell’illecito.

La tesi opposta era stata sostenuta in Cass. Pen., sentenza n. 22611/2012, secondo la quale se la tutela contro subdole forme di controllo da parte del datore di lavoro è garantita, ex art. 4 della Legge 300/1970, da un consenso che promani dalla rappresentanza sindacale, a fortiori deve essere ritenuto valido il consenso prestato direttamente dalla totalità dei lavoratori.

La norma penale di cui trattasi, tuttavia, richiedendo l’intervento delle rappresentanze sindacali dei lavoratori, secondo la pronuncia più recente “non tutela l’interesse personale del singolo lavoratore né la sommatoria aritmetica di ciascuno di essi, ma presidia degli interessi di caratteri collettivo e superindividuale”.

A tal proposito, la Corte ricorda anche l’orientamento, da ritenersi tuttora valido in quanto mai successivamente smentito, secondo il quale l’installazione di un impianto di videosorveglianza senza il preventivo accordo con le rappresentanze sindacali costituirebbe comportamento antisindacale del datore di lavoro, reprimibile con la speciale tutela di cui all’art. 28 dello Statuto del Lavoratori (Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, 16/09/1997 n. 9211).

La ratio della procedura prevista dalla normativa è evidentemente da rinvenirsi nella considerazione dei lavoratori come soggetti deboli del rapporto di lavoro subordinato e tale disuguaglianza a favore del datore di lavoro costituisce la ragione per la quale la procedura codeterminativa sia da ritenersi inderogabile. La stessa previsione della sanzione penale trova, d’altra parte, spiegazione in questa sproporzione.

Ne discende che il consenso o la dichiarazione liberatoria che il lavoratore potrebbe prestare o aver prestato non svolge alcuna funzione esimente atteso che l’interesse tutelato deve intendersi collettivo e dunque non nella disponibilità del lavoratore, che non può dunque validamente disporne (sul punto, anche Cass. n. 22148/2017, oltre alla già citata Cass. n. 38882/2018).